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È del tutto evidente che tra le risorse disponibili necessarie all’abitare il suolo rappresenti una questione centrale rispetto al tema del “costruire”, ma è altrettanto chiaro che tale risorsa sia finita e non riproducibile. Pertanto prima di consumare ulteriore superficie naturale per qualsiasi necessità umana dobbiamo chiederci se non esista la possibilità di costruire sul già costruito, di rigenerare spazi già utilizzati e, in particolare, valutare quanto sia più eco-logico utilizzare in maniera migliore gran parte del patrimonio edilizio esistente spesso colpevolmente abbandonato o male utilizzato. Nel contesto attuale servono due strategie di rigenerazione urbana che sembrano solo apparentemente contrastanti. La prima consiste nel verificare l’opportunità di portare più verde possibile all’interno della città secondo una strategia nota come “riforestazione” urbana resasi necessaria per abbattere le isole di calore, l’impronta di carbonio ma soprattutto indispensabile poiché, allargandosi a dismisura il confine costruito dei tessuti urbani, la distanza città-campagna è diventata talvolta talmente rarefatta da richiedere una naturalizzazione immediata delle aree abitabili. La seconda riguarda una necessaria densificazione del costruito e la ricerca di un mixage funzionale in grado di ridurre la necessità di mobilità che rappresenta il dato di maggior criticità di ogni ambito metropolitano d’oggi: una città percorribile rapidamente a piedi o in bicicletta per lo svolgimento delle principali attività quotidiane per dirla con Carlos Moreno. Tali asserzioni, quasi unanimemente condivise, spingono verso la valorizzazione di quelle architetture che si infilano negli anfratti urbani, che utilizzano i frammenti dispersi, che si sovrappongono ad altri edifici, li sovrastano, che si rapportano con l’esistente perché all’interno di quest’ultimo si inseriscono e si annidano. Torna allora di grande attualità il dibattito sulle “preesistenze ambientali” e di come debba rapportarsi ogni nuovo progetto rispetto al tessuto storicizzato. E qui gli atteggiamenti progettuali divergono tra il massimo dell’integrazione con l’esistente, fino alla mimesi, alla alterità e contrapposizione del nuovo con l’antico in virtù di una affermazione autoriale talvolta salvifica – se il contesto è debole e degradato, attirando su di sé sguardi e attenzioni che altrimenti finirebbero altrove – spesso arrogante, quando si disinteressa delle relazioni con l’intorno mostrandosi incapace di “ascoltare” il valore delle identità dei luoghi. Non è per abbracciare un disincantato atteggiamento “situazionista” e di comodo che riporto un repertorio così ampio di possibilità senza prendere posizione e senza offrire indicazioni comportamentali certe, quanto piuttosto la consapevolezza che non esistendo un lessico o una letteratura condivisa in una società aperta, globalizzata e multiculturale, probabilmente i tratti salienti delle opere in questione si caratterizzano più per la misura, la capacità di confronto con il contesto, il rispetto degli elementi storici rilevanti, l’uso sapiente dei materiali, che non per scelte di campo o di linguaggio ormai oggettivamente lontane e desuete.
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