La quinta facciata
Fino ad oggi siamo stati abituati a pensare a un edificio come a un parallelepipedo appoggiato a terra e coperto da un tetto. Da questa schematizzazione estrema e immaginaria ne deriva l’idea che una qualsiasi architettura abbia quattro facciate, più una faccia invisibile che costituisce il basamento poggiato e integrato nel terreno, e un‘altra, il tetto, protesa verso il cielo. A quest’ultima è affidato il compito di realizzare il riparo dagli agenti esterni, in particolare dalla pioggia o dalla neve e fin dalle origini – teorizzate nel ‘700 da Marc-Antoine Laugier introducendo il modello della capanna primitiva – la copertura è sempre stata concepita in maniera diversa rispetto a qualsiasi altro lato, materializzandosi nell’ipotesi delle falde inclinate o della cupola e comunque in una superficie del tutto particolare a causa della sua importante specializzazione. Che siano di terracotta, di ceramica, di pietra oppure di scandole di legno, storicamente le coperture sono sempre stati luoghi inabitabili, e arditi e complessi sono sempre apparsi i tentativi di abitarle come dimostrano le altane veneziane sospese sui coppi per realizzare leggere camere con vista. Le Corbusier, in uno dei suoni cinque comandamenti, profetizzava il “tetto giardino” come superficie da sfruttare per ampliare la dotazione della casa, introducendo un tema che si dimostra oggi di grandissima utilità; anche se, è bene sottolinearlo, nella maggioranza dei casi, differentemente dalle nobili intenzioni del suo apologeta, i tetti piani sono stati sovente utilizzati come piattaforme di appoggio di una pervasività impiantistica sempre più estesa. Si è così passati dai bellissimi tetti in cotto, che hanno caratterizzato fin dal primo dopoguerra qualsiasi skyline urbano, a coperture piane e lastrici solari spesso utilizzati come depositi di macchinari, sfiati e cisterne necessari per il funzionamento idrico-sanitario e termico degli edifici sottostanti; inserimenti più contenuti in ambito residenziale, devastanti negli edifici per uffici o commerciali. L’attualità ci consegna la possibilità di tornare a pensare al tetto come luogo abitabile e ciò si rende assolutamente necessario per molte ragioni ma in primis per la volontà di limitare il consumo di suolo e quindi di rendere abitabile e utilizzabile anche il quinto lato del “parallelepipedo” edificato. Ciò è favorito anche dalla consapevolezza che nei nuovi edifici la parte impiantistica è progettata in maniera integrata con il manufatto e pertanto le aree tecniche sono posizionate negli ambiti meno nobili degli edifici, come i piani interrati.
Sottotetti, coperture, attici sono anche luoghi dove la vista è privilegiata e quindi si cerca di considerare il tetto non come un luogo inutilizzato ma come una superficie nobile ad alto valore aggiunto che deve essere progettata con particolare attenzione. Quando possibile la copertura può dilatare lo spazio pubblico o, ricoperta di terra e di verde, consentire una rinaturalizzazione del suolo costruito, offrendo l’opportunità di ridare al paesaggio naturale quelle superfici sottratte dall’attività edificatoria. Ci sono state, e tuttora proseguono, anche molte sperimentazioni per installare il verde in verticale, appeso sulle facciate, ma sinceramente lo sforzo del tutto “innaturale” appare sproporzionato rispetto ai benefici. Lasciamo dunque alle facciate il compito di fare il loro mestiere e alle coperture, pur nelle accezioni introdotte dalla “modernità”, il proprio. Allora abitiamole o coltiviamole. Utilizzarle come deposito di macchinari è un vero spreco.
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