L’architettura oltre i generi e le generazioni
Un po‘ di “amarcord” mi deve essere concesso anche se me ne scuso provando oltretutto un certo imbarazzo. Inoltre mi ero ripromesso di non scadere mai nell’autobiografia eppure devo accettare la contraddizione e tornare agli anni della formazione, insomma indietro di oltre trent’anni, quando appena laureato e in corso di dottorato lavoravo e studiavo freneticamente impegnandomi tanto nell’attività didattica, nella pubblicistica, nelle piccole opere, nei grandi concorsi, senza soluzione di continuità. Qualsiasi occasione purché ci fosse qualcosa da proiettare in avanti… cioè da progettare. Ecco quell’energia, quella possibilità di provare, di sbagliare – tanto c’è il tempo per rimediare – quella libertà interiore oggettivamente si perde e non torna; ci si aggrappa mani e piedi all’esperienza, a un mestiere che si crede di conoscere in ogni suo anfratto, alla capacità di governare la complessità del lavoro d’oggi, ma in fondo quella vivacità, come è naturale, si perde lentamente. Mi interrogo e ci dobbiamo interrogare se questo stato interiore si proietti nelle opere e qui con sorpresa dobbiamo riscontrare una alterità disciplinare difficile da spiegare e in grado di superare generi e generazioni come se l’attività del progetto ed il suo risultato finale, l’opera di architettura, fossero indifferenti ai dati anagrafici degli autori o al loro genere di appartenenza. Ce ne accorgiamo raccogliendo e indagando opere e lavori di architetti che non hanno ancora superato i dieci anni di attività, opere che dimostrano una maturità inaspettata, una completezza e un “sapere” che non permette a prima vista di individuare i dati anagrafici del progettista, il genere, il dato storico. Più evidente la provenienza geografica, le scuole di appartenenza, come se lo spazio prevalesse sul tempo. Forse il “bello” dell’architettura, ma in questa riflessione certamente traspare un tentativo auto-consolatorio, è che vi sono opere di giovani che sembrano pensate e immaginate da vecchi, mentre vi sono opere di architetti in piena maturità che continuano ad essere sorprendentemente vitali ed ecco allora che il dato temporale dell’autore soccombe rispetto al dato temporale dell’opera che vive una durata “culturale” certamente più longeva. Ciò che interessa capire – e si tratta evidentemente di una speranza sempre latente – è se la “giovinezza” faccia scoprire l’inaspettato, riveli un punto di vista nuovo o non osservato ed approfondito in precedenza, se cioè vi siano autori in grado di spostare il pensiero comune, aprire nuove frontiere di ricerca o nuovi modelli e modi di abitare. Ma ovviamente non è facile, non è scontato.Concretamente se si elimina dall’architettura il dato stilistico e calligrafico, ciò che rimane è un lento evolvere delle cose senza salti, senza bruschi risvegli, come dire che l’architettura è l’arte della lentezza, dei piccoli spostamenti, dello sguardo proiettato simultaneamente indietro (la conoscenza) ed in avanti (la visione). La contemporaneità infatti permette la compresenza di valori diversi, esalta nella complessità e nella sovrapposizione di immagini le differenze che si attenuano e si perdono inevitabilmente, rimanendo utilizzabile, fortunatamente, la sostanza dell’operare. Osserviamo le opere dei giovani architetti italiani con attenzione, senza severità, consapevoli che il mestiere dell’architetto è articolato, complesso e difficile.
Marco Casamonti
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