Rivista internazionale di architettura e arti del progetto luglio/agosto 2021
Poggiarsi sulle montagne
C’è una caratteristica comune a tutte le architetture di montagna, declinate come “alpine” in qualsiasi parte del mondo si trovino, proprio perché vi sono tratti distintivi del paesaggio, di chi lo attraversa e lo abita in grado di realizzare solitamente un poggiarsi discreto sulla roccia. Con tutta probabilità si tratta del contrappunto tra la presenza di una materia, dura, pesante, immanente, appuntita, naturalmente lapidea e la consistenza degli alberi e dei loro tronchi sempre in precario equilibrio verticale come a voler sfidare il pendio, della neve che si scioglie o cambia di volume al variare delle stagioni, del vento e del sole che si alternano contro uno scenario fisso che al contrario si modifica con la lentezza delle ere geologiche. Forse è questa dialettica degli opposti a determinare tale condizione di supposta instabilità. Un ambiente ostile per l’uomo e la sua esigenza di abitare dove il passaggio, la sosta, il rifugio, appaiono tollerati come un’intrusione, una casualità tale da rendere l’architetto accorto e sospettoso, costretto a cercare quel distacco da terra che talvolta assomiglia all’arrampicata goffa dello stambecco senza mai riuscire realmente a spiccare il volo o sfidare, vincendo, la gravità, impresa che all’uomo, senza l’ausilio della tecnica, è sempre preclusa. Così l’architettura di montagna appare leggera anche quando è di pietra, e si comporta in modo discreto e ligneo anche quando è massiva. E se le fondazioni a malapena scalfiscono la roccia, le coperture si fanno aguzze o scivolose per sopportare il peso dell’acqua che diventa gelo. Va riconosciuto tuttavia che, proprio a causa di tali difficoltà, sovente le opere diventano più accorte, misurate, intelligenti, e che, costretta a fare i conti con una natura impossibile da dominare, ogni attività umana riconosce la propria temporaneità mostrandosi come l’ospite di un parco generalizzato, cosa che, viceversa, è eccezione nei contesti urbani. Per questa via, il grafismo, la calligrafia, lo stile, l’eccezione cromatica sono rari in un ambiente che impone l’equilibrio, il buon senso, la capacità di misurarsi obbligatoriamente con il contesto – pratica salutare che spesso i più dimenticano nelle città – saperlo ascoltare, interpretare, proponendone una lettura che ovviamente deve essere finalizzata alla contemplazione. È questo che chiede il paesaggio, ci concede di essere ammirato e attraversato, ma sempre con rispetto e circospezione. Altrimenti si ribella, e quando lo fa chiama in causa le forze imponderabili della natura rispetto alle quali l’uomo, fortunatamente o sfortunatamente, niente può.
Marco Casamonti
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