Rivista internazionale di architettura e arti del progetto maggio/giugno 2020
Dopo il lockdown torneremo a muoversi… ma come?
Il recente, inaspettato quanto obbligatorio lockdown ci ha insegnato, oltre l’inadeguatezza di molti degli spazi domestici in cui viviamo, l’estrema esigenza per tutti di tornare ad incontrarsi, cambiare opinioni, viaggiare, conoscere. Tuttavia, sarà necessario farlo in modo più consapevole limitando il più possibile la mobilità privata non solo inquinante ma più in generale devastante per la qualità della vita nei nostri centri urbani. In due mesi di blocco dei movimenti, e quindi del traffico, abbiamo riscoperto spazialità e sonorità perdute oltre a una limpidezza dell’aria e dell’acqua che in taluni contesti non si vedevano da decenni. E poiché tutti ci chiediamo dove e come questa pandemia cambierà la nostra vita e le nostre abitudini, tra le tante conseguenze negative che ci impongono un antiumano distanziamento sociale, dobbiamo augurarci un più consapevole uso delle risorse e del tempo e anche un più intelligente modo di spostarsi e viaggiare. Probabilmente abbiamo compreso che molti dei nostri movimenti sono evitabili e che molte delle attività economiche possono essere fatte in modalità remota e attraverso una efficace connessione di rete, ma c’è da sperare che finalmente si sia compreso, ad ogni livello, l’importanza del tema delle infrastrutture collettive di trasporto nelle due dimensioni: quella virtuale e quella reale. Sia la prima che la seconda mostrano quanto sia selettiva la contemporaneità tagliando fuori dalla quotidianità quei luoghi, quei contesti urbani e quelle abitazioni che non siano efficacemente connesse con un mondo divenuto assolutamente globale, nel bene – la circolazione delle informazioni – e nel male – la diffusione incontrollabile di un virus. Dal punto di vista delle infrastrutture di rete connesse alla digitalizzazione purtroppo si avanza nella disuguaglianza spinta da un’economia che privilegia i grandi numeri tagliando fuori i centri minori secondo una modalità che non differisce molto dalle infrastrutture di collegamento fisico e reale. E questo è imperdonabile perché significa ancora una volta che la digitalizzazione è utilizzata più come strumento di vendita e consumo che come opportunità di democratizzazione della società. Allo stesso tempo, e forse proprio per questi motivi, agli architetti compete insistere ed impegnarsi nel sostenere ogni opportunità di modificazione fisica dei luoghi in cui abitiamo a partire dai sistemi della mobilità. E poiché proprio gli architetti nel corso del secolo scorso hanno creduto e spinto verso una modernità tutta incentrata sull’automobile, fino teorizzare e costruire città incentrate sulla mobilità privata – Brasilia docet – o addirittura ipotizzare strade sui tetti degli edifici come nei sogni lecorbuseriani del piano di Algeri, tocca agli architetti di oggi rimediare a questi nefasti sogni di gloria lavorando quotidianamente per promuovere e progettare sistemi sostenibili ed ambientalmente compatibili per la mobilità futura. E poiché “disegnare” significa anche prevedere, prefiggersi col pensiero un obiettivo, determinare, spetta alla disciplina dell’architettura, e chi a vario titolo se ne occupa, di ipotizzare nuove possibilità per l’abitare stanziale, la casa, ma anche nomadico, il sistema degli spostamenti. Per questa via ogni progetto di percorso pedonale, pista ciclabile, stazione, terminal, high-line, costituisce oggi un atto rivoluzionario e predittivo di una vita che tenda a liberarsi il più velocemente possibile dall’uso dei combustibili fossili e dalla privatizzazione dello spazio collettivo, strade e piazze in primis.
Marco Casamonti
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