Rivista internazionale di architettura e arti del progetto luglio/agosto 2019
L’architettura come arte dell’accoglienza
Se c’è un significato nel fare una rivista questo risiede nella possibilità di insistere instancabilmente a fare ricerca e, se c’è una ragione per continuare a leggere questo si misura nella necessità, per chi progetta, di mettere lo studio al centro del proprio lavoro. Studio e ricerca sono strettamente interconnessi con la disciplina dell’architettura che se esprime, come è certo, l’arte di abitare, evidentemente rappresenta il risultato di un’arte in costante divenire perché continuamente mutano le nostre condizioni di vita e con questa i nostri bisogni e i nostri desideri. L’oggi ha trasformato, per evidente effetto della globalizzazione, l’umanità in un mondo interconnesso e in costante movimento rendendo di stringente attualità il tema dell’accoglienza e di cosa troviamo lontano dalla nostra casa e dai nostri luoghi di lavoro; e quand’anche la digitalizzazione dei processi di produzione consenta forme di lavoro domestico è la casa che è costretta a cambiare dovendo accogliere quelle attività un tempo esterne alla domesticità. Accogliere oggi significa vivere e ciò si dimostra in una dimensione epocale connessa con lo spostamento di masse di persone in fuga da guerre e povertà, e inutili per non dire disumane si dimostrano le contromisure che tentano di ostacolare e fermare ciò che naturalmente segue l’istinto alla sopravvivenza. Il tema dell’accoglienza è quindi questione centrale della nostra quotidianità, sia nella dimensione drammatica e umanitaria dell’emergenza, sia nella visione di un’esistenza dove non è più l’ambiente domestico il fulcro di un abitare che è divenuto obbligatoriamente nomadico. Ci spostiamo per lavorare, per dormire, per mangiare, per studiare, per divertirsi, per curarsi, e ogni volta si pone il tema della qualità fisica dei luoghi che ci accolgono e della loro capacità di essere ospitali e di farci sentire – potremmo dire con una logica un po’ retrò – lontani da casa, come a casa. È anche il risultato di un superamento definitivo della modernità e di una condizione dove scopo dell’architettura non è costruire luoghi che seguono necessità eminentemente funzionali, ma spazi abitabili che al di là della loro specifica funzione pongano la qualità della vita delle persone, il loro sentire e le loro emozioni, come centrali rispetto al progetto. Ricordo, con una logica che oggi ci fa sorridere, il giudizio tanto negativo quanto impacciato, di Giulio Carlo Argan – uno dei più grandi critici italiani del novecento – alla Cappella di Ronchamp di Le Corbusier (vedi “Casabella“ n. 209 del 1956) reo di aver tradito le istanze del moderno poiché il maestro, a suo vedere, non si era limitato a progettare una chiesa, cioè un contenitore dove si raccolgono i fedeli in preghiera, ma uno spazio evocativo inutilmente enfatico e celebrativo, forse eccessivamente “accogliente”. Ecco, proprio di quegli eccessi dovrebbe nutrirsi la nostra quotidiana capacità progettuale nella convinzione che l’ospitalità non è un termine riservato alle strutture ricettive e turistiche ma una caratteristica imprescindibile di ogni architettura.
Marco Casamonti
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