Rivista internazionale di architettura e arti del progetto settembre/ottobre 2018
La dimensione urbana ovvero la straordinaria bellezza dell’ordinario.
La città è un insieme omogeneo di edifici in cui si svolgono le attività quotidiane mentre a funzioni e occasioni speciali sono dedicati i monumenti o le architetture dal carattere singolare. È evidente che un assieme urbano costituito da soli monumenti e manufatti straordinari non costituisce una città risultando semplice accostamento di opere eccezionali che escludono necessariamente l’ordinarietà dell’abitare e del vivere. Parimenti una città priva di carattere e di singolarità non consente all’individuo l’opportunità di separare i ritmi giornalieri e individuare, attraverso il diverso carattere degli edifici, le differenti necessità umane. Tuttavia l’architettura, come la storia, soffre della sindrome dell’evento ed è scritta attraverso la narrazione di fatti specifici e singolari che però perdono di senso se non si inquadrano correttamente nella catena evolutiva dell’esistenza fatta di ciclicità e ordinarietà. Per tali motivi la nostra disciplina e la critica che la sottende è da sempre orientata al racconto del gesto e dell’opera straordinaria dimenticando talvolta che tali manufatti assumono valore solo se inquadrati all’interno di una massa più ampia di edifici che chiamiamo, opportunamente, contesto. Senza quest’ultimo non esiste la città e, senza di questa, non è possibile lo svolgersi delle attività umane in forma aggregata almeno per come le conosciamo fino ad oggi. L’architettura ordinaria assume un carattere assolutamente straordinario non in quanto singolarità ma come frammento di un assieme che può essere compreso solo nel suo complesso. A queste opere, a queste architetture, dobbiamo una particolare attenzione e riflessione poiché il progetto che sembra cedere parte della propria riconoscibilità in nome di una indispensabile omogeneità e armonia del paesaggio non vanifica l’autorialità del singolo semmai valorizza la capacità dell’autore di “saper vedere l’architettura” dentro un assieme più ampio che è l’essenza dell’identità dei luoghi. La ricerca dello “stupefacente” per ogni progetto, non solo è inutile, ma di più è dannosa perché dimentica che il fine ultimo dell’arte del costruire è la creazione di un ambiente abitabile. Negli anni e con diverse sfumature molti protagonisti del dibattito architettonico sono tornati insistentemente su questi temi come richiamo verso una responsabilità etica del progetto che deve prevalere e prescindere dalle biografie dei singoli per assumersi il compito di costruzione della città e del paesaggio. A questi autori della normalità, a questi progetti ordinari è dedicato questo numero di Area.
Marco Casamonti
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