Rivista internazionale di architettura e arti del progetto settembre/ottobre 2017
Saper ascoltare l’architettura
Una intera generazione ma forse gran parte delle successive si è formata in Italia leggendo l’invito di Bruno Zevi a “Saper vedere l’architettura”; è il 1948 e l’autore, che non ancora terminato il secondo conflitto mondiale fonda l’Associazione Per l’Architettura Organica (APAO) e nel ‘45 la rivista Metron, con un accorato appello, esorta tutti, non soltanto gli addetti ai lavori, a considerare l’opera architettonica per i propri contenuti spaziali indipendentemente da qualsiasi indicazione di tipo stilistico. Non conta la forma, la plastica ornamentale e quindi l’immagine di un edificio, ciò che zevianamente definisce il valore di un’architettura è la sua capacità di contenere la vita e conseguentemente le attività che svolgono la propria azione all’interno di uno spazio. La presa di posizione contro un modo desueto della critica di leggere e interpretare l’architettura prescindendo dal valore dello spazio interno lo porta ad alcune considerazioni paradossali che coinvolgono l’architettura per eccellenza, quella greca, quella dei templi, considerati sculture, bellissime opere d’arte tuttavia incapaci di assurgere al ruolo di architettura perché fondamentalmente privi di spazio interno se si esclude il ruolo minimale della cella (naos) per altro inaccessibile se non al sacerdote. Al celebre critico – ormai scomparso da quasi vent’anni, la cui ostinata intelligenza manca senz’altro sia alla cultura italiana che a quella internazionale – va riconosciuto il merito di aver posto l’interpretazione spaziale di un‘opera come centrale rispetto all’analisi critica che della stessa si può fornire osservandola semplicemente dall’esterno.Tale visione che antepone il contenuto al contenitore, lo spazio alla forma, diviene straordinariamente importante quando si considerano particolari tipologie di edifici la cui vita e vitalità dipende in maniera imprescindibile dalla “forma dello spazio”, come nel caso dei teatri, delle sale da musica, degli auditorium. Si tratta in effetti di luoghi assolutamente speciali, architetture che al pari di strumenti musicali devono prioritariamente “suonare bene”, invitare il pubblico alla partecipazione e all’ascolto utilizzando gli strumenti dell’architettura e del progetto per valorizzare lo spettacolo che vi si svolge all’interno. La storia del teatro come edificio dimostra che l’ideale moderno per cui la forma segue la funzione è centrale rispetto all’evoluzione tipologica giacché a partire dal Teatro Olimpico di Vicenza su disegno di Andrea Palladio, – concluso dopo la sua morte nel 1580 dal vicentino Vincenzo Scamozzi – si afferma la forma a ferro di cavallo, definita all‘italiana, che realizza l’ideale congiunzione con il teatro greco e romano ma in particolare consente di porre gli spettatori a una distanza più o meno radiale, e quindi equidistante rispetto al palco, creando una cavea che ricorda la forma di una campana in grado di riverberare l’acustica in un modo ottimale. Dal dopoguerra si sono sperimentati con successo diversi tipi di sale e quindi di teatri o auditorium per la musica tuttavia nonostante le convinzioni zeviane, per la rilevanza urbana di questa categoria di edifici, il successo e quindi, in ultima analisi il valore, è sancito da un equilibrato rapporto tra interno ed esterno dove anche l’immagine, per dirla alla Valéry, deve trasmettere musica. La Elbphilharmonie di Herzog & de Meuron docet.
Marco Casamonti
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