Rivista internazionale di architettura e arti del progetto gennaio/febbraio 2016
Singapore: cinquant’anni di solitudine
Difficile definire Singapore, difficile e complesso per la sua condizione unica e forse irripetibile, un luogo che simultaneamente rappresenta, come nel celebre romanzo di Luigi Pirandello, la disgregazione dell’identità in questo caso urbana in un assieme che può essere letto, appunto, come Uno, nessuno e centomila. Singapore è uno stato ma al contempo una città; una metropoli, un’isola, un arcipelago, è uno dei luoghi più densamente abitati del mondo ma anche una città dotata di straordinari e immensi parchi, un universo totalmente artificiale dove è stato costruito un sistema di giardini botanici protetti dall’Unesco e ritenuti patrimonio mondiale dell’umanità.
Contrariamente a tutti i paesi del mondo la sua indipendenza non discende da un atto volontario ma dal rifiuto della Malesia che nel 1965 rinunciò alla legittima patria potestà lasciando Singapore a un destino e una guida politica tanto longeva quanto determinata, che ne ha fatto oggi uno dei centri finanziari più importanti del mondo, un hub logistico che costituisce lo snodo principale del traffico di tutto il Sud-Est asiatico. Una democrazia rigidissima dove non si può masticare gomme, fumare o bere alcolici nei luoghi pubblici, dove è ancora in vigore la pena di morte e il controllo individuale è altissimo; tuttavia si tratta di un paese nel quale vige un efficientissimo sistema dello stato e della giustizia, corruzione e disoccupazione sono quasi assenti, con una alta qualità e durata della vita media.
La sua architettura, intesa come immagine fisica della città, come sistema di opere e monumenti frutto della cultura e delle attività umane non attrae, non colpisce il visitatore eppure a fronte di una popolazione di appena 5 milioni di abitanti il turismo conta oltre 10 milioni di presenze annue. Ciò significa che la sua dimensione internazionale, costruita attraverso un verticalismo tanto anonimo quanto necessario, riesce a colpire il visitatore che non trova, diversamente dalla maggior parte dei contesti urbani della terra, quella sedimentazione e stratificazione del costruito che definisce comunemente ogni idea di città.
A Singapore tutto è accaduto negli ultimi cinquanta anni e non vi è niente di originale se non l’insieme, il modello che deriva da New York e anticipa Dubai, che non insegue l’eccellenza individuale ma lo stupefacente generalizzato di un gigantismo da primato destinato ad essere superato come la ruota panoramica più alta del mondo. Eppure questa sorta di Svizzera d’Oriente senza carte per terra, pulita come il salotto di casa, ordinata e funzionale come il meccanismo perfetto di un orologio, costituisce alla fine un’eccezione rispetto alle metropoli asiatiche: multietnica, desiderata, ricca, perfetta. Una metropoli che attira e innesca riflessioni e confronti, che sollecita come poche altre al mondo le attenzioni degli studiosi della città. Non è un caso che dopo il celebre Delirious New York e Junkspace, Rem Koolhaas abbia deciso di pubblicare, estrapolandolo in parte dall’imponente S,M,L,XL, il volume Singapore Songlines un saggio dove viene dimostrata la peculiarità di Singapore rispetto al resto del mondo: È pura intenzione; se c’è caos, è caos ideato; se è brutta, è di una bruttezza progettata; se è assurda, è di una assurdità voluta. A creare il mito di Singapore concorrono molti fattori, ma tra i tanti possibili almeno tre risultano a ben vedere determinanti: la sua solitudine, la sua competitività, la sua continuità in termini di gestione politica e quindi di visione del mondo e della vita. In definitiva, non possiamo che concordare con la lettura citata: si tratta in ogni caso di un fenomeno programmato del tutto intenzionale.
Marco Casamonti
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