Rivista internazionale di architettura e arti del progetto novembre/dicembre 2013
Massimiliano e Doriana Fuksas: l’immaginazione al potere
Si è appena conclusa l’inaugurazione dell’aeroporto di Shenzhen che celebra la prima grande opera progettata e costruita dallo studio Fuksas in terra di Cina mentre mi accingo a riflettere criticamente su un lavoro ed una carriera che a questo punto si rivela, non soltanto cosmopolita e trasversale, quanto poliedrica e originale. Si tratta di un’opera tanto importante e convincente che se procedessimo a ritroso, dagli esiti attuali fino agli esordi, potremmo rischiare di risultare condizionati dall’ultimo atto di una vicenda progettuale e umana che ha raggiunto e consolidato l’ipotesi di trovarsi di fronte, con i Fuksas, ai grandi costruttori che hanno segnato o meglio di-segnato l’immagine degli inizi di questo nuovo millennio. Un primato che spetta alla Cina, alla sua straordinaria ascesa economica (lo yuan è diventato la seconda moneta più diffusa al mondo dopo il dollaro, superando l’euro) e alle opere che rappresentano fisicamente la forza immanente di questo stravolgimento dell’asse degli interessi mondiali verso est: l’aeroporto di Pechino di Norman Foster, e, sempre nella capitale cinese, lo stadio olimpico di Herzog & de Meuron, la sede della CCTV progettata da Oma e oggi, appunto, il grande aeroporto di Shenzhen. Tuttavia mentre le opere ricordate ricercavano l’eccezionalità del monumento, lo stupefacente, l’irraggiungibile, l’ipotesi Fuksas appare ancor più straordinaria perché non trascende nell’affermazione muscolare dell’architettura come strumento di rappresentazione del potere, quanto di una suadente architettura civile posta al servizio di un paese che costruisce le infrastrutture commisurate alle proprie immense necessità e risorse. Conseguentemente l’intenzionale valore del progetto si svela in una ricercata morbidezza derivata dall’invenzione dell’origami che definisce l’involucro architettonico generando uno spazio sapientemente attraversato da luci e ombre in maniera da ridurre, con sofisticata naturalezza, la percezione dell’inevitabile gigantismo dell’opera. Vale a dire: l’eccezionale trasformato in normalità! Ecco allora che, procedendo non cronologicamente, (rigore metodologico che spetta, di diritto, agli storici), ma muovendosi tra opere e vicende umane con la curiosità del rabdomante, si comprende il senso più autentico e appropriato di quell’intuizione Less Aesthetics More Ethics, lanciato nel 2000 in occasione della direzione della VII. Rassegna di Architettura della Biennale di Venezia, quale monito di una deriva tutta iconica che ha condizionato l’architettura negli ultimi decenni. Si comprende inoltre il senso di quel grande muro di immagini urbane e di persone in movimento nello svolgimento della propria quotidianità che attraversava per intero le statiche, quanto affascinanti, navate dell’arsenale di Venezia. Un mondo intelligentemente rappresentato nel suo divenire, nella costanza di un desiderio collettivo di incontrarsi, scambiarsi informazioni, abitare, lavorare. Esperienze che si svelano negli spazi fluidi dei numerosi centri commerciali progettati negli anni dallo studio Fuksas basti pensare al MyZeil di Francoforte , nel lungo percorso dei padiglioni espositivi della Fiera di Milano dove gli autori reinventano e disegnano una nuova urbanità, nei rigorosi quanto leggeri uffici della sede Ferrari di Maranello dove il lavoro si rappresenta nell’opportunità di una esperienza tanto iridescente quanto intenzionalmente semplice. Nelle decine di interpretazioni dei temi assegnati, consegnati alla collettività più che all’avidità inutile di critici in cerca d’affermazione, si consolida allora un messaggio che guarda oltre le apparenze, oltre l’immagine, lo stile, la facile catalogazione, l’estetica, per approdare verso la sostanza delle cose, la vita delle persone, un desiderio di abitare che rifiuta la monotonia, l’omologazione. D’altronde Fuksas concepisce l’architettura come arte, lo spazio come forma di espressione, il progetto come ricerca, l’etica del fare come una costante aspirazione a sperimentare modi e forme dell’abitare. Una vocazione nella quale si assume personalmente tutti i rischi del mestiere, i pericoli degli insuccessi oggettivamente rari seguendo costantemente quell’istinto, proprio dell’artista, che consente ai più dotati di prevedere ed anticipare il corso degli eventi. Un’irruenza visionaria placata dalla costanza di una socia, di studio e di vita, che riequilibra, con calibrata sapienza, un perfetto meccanismo creativo. Senza eccessi una sorta di Steve Jobs dell’architettura, o più coerentemente un Brunelleschi d’oggi. Disegnano una nuvola? Dopo pochi anni esistono solo nuvole, Apple si inventa l’iCloud, Telecom, la più importante società di telecomunicazioni italiana, la campagna commerciale denominata la nuvola semplice, la casa automobilistica Renault lo ingaggia per rappresentare il futuro. Costruisce con la Fiera la nuova galleria di Milano realizzando la più grande copertura vetrata del mondo (per la cronaca 1,3 km) e, in occasione del World Expo di Shanghai, i progettisti del masterplan generale la copiano brutalmente (la citazione è questione più colta e complessa) trasformandola, nel 2010, nel simbolo della strada di collegamento tra i padiglioni dell’Esposizione Universale. Nel corso di una recente presentazione del loro lavoro ho suggerito, con una convinzione che ancora oggi non mi abbandona, come Massimiliano abbia realizzato esattamente ciò che i suoi colleghi di battaglia urlavano per le strade e nelle piazze nel clima caldo del 68, auspicando sulle orme di Marcuse l’immaginazione al potere; tuttavia mentre per i giovani della protesta si trattava solo di uno slogan, di un’aspirazione smentita successivamente dalla realtà, per Fuksas quell’indicazione ha rappresentato l’essenza di una vita, la costanza del lavoro finalizzato a persuadere i potenti del mondo a realizzare le sue idee, come accaduto per il progetto della Peace House realizzato in Israele ed inaugurato da Shimon Peres nel 2008. Ovviamente per molti si tratterà soltanto di coincidenze fortuite, di casi della vita, di condizioni culturali e sociali che sono nell’aria, sarà pur vero tuttavia Fuksas sa coglierle e trasformarle in progetti, edifici, architetture, trovandosi, immancabilmente sempre al posto giusto nel momento giusto. Fortuna? No, capacità, costanza, pervicacia e ancora intuito, fiuto, visione, qualità indispensabili per un artista e ancor più per l’architetto. Franco Purini, architetto romano suo coetaneo, da me interrogato sul fallimento, a livello di produzione architettonica, di una intera generazione, mi ha spiegato, in maniera convincente e oggettiva, che fare l’architetto in Italia negli anni settanta era praticamente impossibile. Per i trentenni di allora parlare di architettura e progetto mentre per strada si sparava e moriva nel clima infuocato degli anni di piombo rappresentava, come è facilmente comprensibile, un’illusione cullata, al più, nel ristretto cerchio delle aule universitarie attraverso la programmatica rinuncia a costruire. Ma poiché il termine rinuncia non sembra appartenere né all’istinto rivoluzionario e combattivo di Massimiliano, né al tosto pragmatismo di Doriana Fuksas, l’attività dello studio, e con loro i protagonisti, si sposta a Parigi, seguendo un percorso che molti artisti italiani e non, avevano attraversato tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, da Modigliani a Le Corbusier, oppure più prosaicamente seguendo quel flusso che ha portato molti intellettuali rivoluzionari a rifugiarsi in terra di Francia. In ogni caso l’orizzonte dello studio Fuksas non segue le peripezie politico giudiziarie del 77, non guarda a Scalzone e Toni Negri, puntando piuttosto a raggiungere il giovane Piano, di una decina d’anni più vecchio, reduce dallo strepitoso successo ottenuto con la vittoria congiunta con Richard Rogers del concorso per il Centre Pompidou. Per l’architettura, durante il corso di tutti gli anni ottanta, la Francia è una sorta di terra promessa in cui lo studio Fuksas forma e sperimenta le proprie ambizioni costruttive e immaginifiche muovendosi dai temi museali al sociale, dal restauro alla residenza. Partecipano, prima lateralmente, poi da protagonisti a quel fervido clima culturale in cui l’architettura è sostanza e materia del dibattito tra intellettuali e politici, saltando a pie pari, per convinzione e contingenza, i parziali successi italiani della tendenza e del ritorno alla tradizione. La selezione delle opere e dei progetti mostra sempre, negli anni, una incredibile capacità produttiva e come ad un pittore cui non può essere sottratta la tela, Massimiliano e Doriana Fuksas iniziano a spostarsi ed allargare i propri orizzonti in tutta Europa, dall’Austria, dove realizzano a Vienna due affilate e affiancate torri vetrate, alla Germania dove realizzano numerosi interventi che per il successo ottenuto gli valgono i primi grandi incarichi italiani, molti dei quali raggiunti con la vittoria di concorsi internazionali: il centro congressi all’Eur di Roma, la citata Fiera di Milano, la torre della regione a Torino, la chiesa di Foligno, oltre a prestigiosi incarichi diretti che eseguono con infinita attenzione, indipendentemente dalla dimensione dell’intervento, come nel caso della sede degli uffici Ferrari a Maranello o del suggestivo progetto del Centro Espositivo Nardini a Bassano del Grappa. Tornando all’attualità con un repentino quanto necessario passaggio dalla ricostruzione biografica, peraltro indispensabile per la comprensione di un lavoro tanto complesso e articolato, all’analisi critica di una vicenda espressiva così difficile da catalogare, vorrei sottolineare un tratto inconsciamente albertiano quale paradosso di una modernità che rifiuta l’internazionalizzazione e l’omologazione dei comportamenti, attraverso l’individuazione, in ogni progetto, di soluzioni originali ma al contempo incredibilmente appropriate (il termine Concinnitas, introdotto in architettura da Leon Battista Alberti, indica una particolare attenzione alla forma ed all’ordine per armonizzare elementi umani con regole naturali, matematiche, armoniche o ritmiche). Superficialmente l’appropriatezza, o l’armonizzazione della forma al tema, potrebbe rappresentare, in relazione alle opere dello studio Fuksas una stridente provocazione retorica, l’ossimoro del pensiero. Viceversa senza nessun ammiccamento al contesto, moltissime opere antepongono opportunamente alla smania della ripetizione griffata che tanto annebbia la vista, l’operato e gli esiti, di molti grandi studi internazionali la ricerca della soluzione più coerente rispetto alle richieste della committenza, al programma e al luogo dell’intervento.
Marco Casamonti