Rivista internazionale di architettura e arti del progetto maggio/giugno 2013
Comunità informali/Informal community
Se nella prima sala delle corderie dell’Arsenale realizzata da Sir Norman Foster per l’ultima edizione della Biennale di Venezia, intitolata Common ground, campeggiavano immagini di slums, comunità informali e spontanee, favelas, comunque luoghi urbani della povertà e del disagio, significa che il fenomeno è diventato talmente grande ed importante che anche il più sofisticato degli architetti, ancora oggi impegnato nella costruzione tecnologica di sedi bancarie, opulenti grattacieli ed aeroporti, ha sentito un cambiamento climatico che spinge la cultura architettonica a modificare il proprio sguardo sull’esistente. In effetti pur trattandosi di una eccezione conseguente al tema della rassegna, la questione delle comunità , di un abitare sottratto alle regole del mercato e autoregolato dalle necessità della sopravvivenza, occupa spazi quantitativamente rilevantissimi di alcune aree del pianeta, dal sud America all’Africa, dall’India alla Cina fino ad interessare gran parte del sud est asiatico. Dalla presenza di queste zone grigie antiurbane non sono esclusi neanche i ricchi Stati Uniti d’America come è facilmente rilevabile oltrepassando i neon sfavillanti di Las Vegas per addentrarsi nei sobborghi limitrofi dove tra roulotte, camper e casette prefabbricate o improvvisate vivono i lavoratori (camerieri, cuochi, inservienti) della città dell’inganno e del denaro. In ogni caso è ovvio che la questione deflagra in quelle megalopoli come Città del Messico, Caracas, San Paolo o Rio de Janeiro dove la dimensione delle comunità spontanee risulta maggioritaria, per estensione superficiale ed abitanti, rispetto alla città formale o legale circostante in cui il concetto occidentale di ghetto si ribalta completamente trasformando in comunità ristrette e chiuse i compound della borghesia e delle fasce sociali più ricche che cercano di isolarsi e chiudersi rispetto al resto della città. Incredibile il caso di Hong Kong dove per mancanza di spazio le superfici residuali sono trovate dagli abitanti del disagio sui tetti dei grattacieli dove vivono comunità di emarginati che non hanno la possibilità di accedere al normale mercato della casa. Per questo se il problema è globale la sua soluzione, o il tentativo di superamento della condizione di inabitabilità in cui risiedono miliardi di persone, non si può ricercare in una strategia unitaria che prescinda dalle condizioni climatiche, politico sociali e dimensionali del fenomeno. Quando il fenomeno è talmente esteso da risultare non risolvibile non esistono strategie d’urto incentrate sulla demolizione e ricostruzione che significherebbe inevitabilmente anche deportazione bensì occorrono ricerche e soluzioni in grado di valorizzare le strutture urbane che queste comunità spontanee hanno saputo generare.
Marco Casamonti
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