Rivista internazionale di architettura e arti del progetto gennaio/febbraio 2012
Beirut a city in continuous metamorphosis
La Beirut di oggi è una città ancestrale e contemporanea nello stesso tempo. Metaforicamente le parti in cui è suddivisa appaiono come placche tettoniche che si scontrano le une contro le altre senza riuscire a fondersi, galleggiando in un magma privo di integrazioni o relazioni tra le parti; tuttavia Beirut è innegabilmente una città iper moderna, multietnica e multireligiosa dove le diversità costituiscono il basso continuo della vita quotidiana, l’essenza stessa di un luogo dove si sovrappongono innumerevoli caratteri insediativi, sociali, politici e religiosi. In un quadro tanto ricco di contrasti e contraddizioni la capitale del Libano è, anche a causa di una storia tanto travagliata e controversa, uno straordinario laboratorio evolutivo dove la biodiversità non ha nulla di congenito o di pacifico, risultando, piuttosto, come la naturale conseguenza di un susseguirsi antico ed instancabile di dominazioni, conflitti, distruzioni. Tale conflittualità non può in ogni caso essere liquidata con superficiale distacco o un’appassionata condanna di una catarsi ritenuta da molti inevitabile, mostrandosi, piuttosto, quale opportunità che riflette una costante propensione a costruire e ricostruire purtroppo caoticamente ed in modo disorganico oltre una evidente gioia di vivere che traspare, assieme alle tracce delle pallottole e degli scontri, da ogni muro o finestra della città. Evidentemente Beirut possiede nel proprio patrimonio genetico straordinari e invincibili anticorpi che le consentono di rigenerarsi e riproporsi nel tempo come uno dei principali teatri politico-finanziari per l’intera area medio orientale riuscendo a resistere alle profonde mutazioni, ma forse sarebbe meglio definirle amputazioni, di brani interi di un corpo urbano che continua a resistere ad invasioni, guerre civili, bombardamenti, incendi e devastazioni di ogni genere. Per la comunità scientifica e più in generale per ogni studioso dei fatti urbani, Beirut rappresenta il testo ideale su cui misurare l’effetto di strategie di trasformazione urbana, il valore ed il ruolo ordinatore del masterplan rispetto alla rigida strumentazione del piano o dei piani; ma anche il luogo in cui possiamo valutare con unanime condivisione quanto sia necessario ed indispensabile per il governo del territorio porre in atto strategie di regolamentazione dell’iniziativa privata. In effetti anche l’esperienza di Solidère, società incaricata di ricostruire il central discrit ed una parte importante del waterfront, se non può non essere considerata che positivamente per la straordinaria rapidità di azione, è unanimemente criticata per l’inevitabile condizionamento che le deriva per l’effetto combinato della necessaria flessibilità operativa con le enormi pressioni speculative che gravano sulle singole aree in modo tanto pressante da condizionare la strategia complessiva dell’intervento a titolo indicativo possiamo citare il fatto che degli oltre 1500 edifici censiti come di rilevanza storico architettonica ne sono stati realmente conservati meno di un quinto, gli altri sono stati cancellati negli anni dalla lista e dalla memoria dei cittadini di Beirut come denunciano molti intellettuali che hanno dato vita, sui social network, al gruppo save Beirut heritage. Si tratta in ogni caso di una esperienza di estremo interesse perché ha liberato l’area dal peso e dai vincoli delle diverse proprietà dei suoli riunendole sotto un unico soggetto in grado di agire con estrema incisività e libertà, una libertà che evidentemente pone sul tavolo questioni di carattere etico-operativo. Tuttavia la ricercata esclusività nella ricostruzione del centro, l’attesa per una nuova immagine urbana che caratterizzasse il centro del centro di tre continenti ha autorizzato gli investitori privati a promuovere progetti internazionali globalizzanti in grado di riaffermare l’idea di Beirut come la Parigi d’oriente attraverso edifici iconici cui sono stati invitati a partecipare, dopo l’esperienza del nuovo Souk di Rafael Moneo, i soliti noti: Zaha Hadid, Jean Nouvel o Norman Foster che conferiscono valore (immobiliare) e fama all’operazione prima ancora di essere costruiti. Con ciò talvolta sono esclusi dai giochi i migliori architetti libanesi, alcuni di comprovata bravura e intelligenza come dimostrano le opere di questo numero.
Laura Andreini
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